Allievo e Maestro

Tratto dal libro La mia strada è la tua strada di Jiddu Krishnamurti

Shihan Francesco Cuzzocrea  con l'allievo nonche'  artista  pittore Raffaele Muscolo
Shihan Francesco Cuzzocrea con l'allievo nonche' artista pittore Raffaele Muscolo

«Sai, mi hanno detto che io sono allievo di un certo maestro» - egli cominciò. «Credi che lo sia veramente? Ci tengo proprio a conoscere il tuo pensiero sull’argomento. Appartengo a una società che tu conosci, e i capi esterni che rappresentano quelli interni, o maestri, mi hanno detto che come conseguenza del mio lavoro per la società sono stato dichiarato allievo. Mi è stato detto che ho l’occasione di diventare un iniziato di primo grado in questa vita». Egli prendeva tutto ciò molto sul serio e parlammo abbastanza lungamente. Una ricompensa sotto qualsiasi forma è cosa quanto mai grata, soprattutto una ricompensa cosiddetta spirituale, quand’uno sia piuttosto indifferente agli onori del mondo. Oppure quando uno non ha ottenuto molto successo in questo mondo, è cosa molto grata appartenere a un gruppo specialmente scelto da qualcuno che ha fama di persona spiritualmente assai progredita, perché allora si è parte di un gruppo operante per una grande idea, e naturalmente si deve essere ricompensati per la propria obbedienza e per i sacrifici fatti per la causa. Non si tratta di ricompensa nel senso comune della parola, ma di un riconoscimento dell’evoluzione spirituale compiuta; o, come in un’organizzazione ben diretta, si dà riconoscimento ufficiale dell’efficienza di un dipendente per spronarlo a fare ancor meglio. In un mondo in cui si adora il successo, questo genere di avanzamento è compreso e incoraggiato. Ma sentirsi dire da un altro che si è allievo di un maestro, o credere di esserlo, porta ovviamente a molte odiose forme di sfruttamento. Purtroppo, tanto lo sfruttatore quanto lo sfruttato si sentono euforici nel loro reciproco rapporto. Questo espansivo senso di soddisfazione è considerato un progresso spirituale e diventa particolarmente brutale quando vi siano intermediari tra l’allievo e il maestro, quando il maestro si trovi in un altro paese o sia comunque inaccessibile e non ci si trovi in diretto contatto fisico con lui. Questa inaccessibilità e la mancanza di un contatto diretto aprono la porta alla delusione e a meravigliose, ma infantili, illusioni; e queste illusioni sono sfruttate dagli scaltri, da coloro che perseguono la gloria e il potere. Ricompensa e punizione esistono soltanto ove non sia umiltà. L’umiltà non è il prodotto finale di pratiche spirituali e di abnegazione. Essa non è una conquista, non è una virtù da coltivarsi. Una virtù che sia da coltivarsi cessa di essere virtù, perché in questo caso non è che un’altra forma di conquista, un primato da battere. Una virtù coltivata non è abnegazione, ma asserzione negativa dell’io. Umiltà è ignara della divisione tra superiore e inferiore, tra maestro e allievo. Fino a quando vi sia divisione tra maestro e allievo, fra la realtà e noi stessi, la comprensione non è possibile. Nella comprensione della verità non c’è maestro o allievo, ne’ superiori né inferiori. La verità è la comprensione di ciò che è di momento in momento senza il fardello o il residuo del momento passato. Ricompensa e punizione non rafforzano che l’io, cosa che di per sé nega l’umiltà. L’umiltà è nel presente, non nel futuro. Non si può diventare umili. Nel semplice divenire è la continuazione dell’importanza di sé, la quale si nasconde nell’esercizio di una virtù. Quanto la nostra volontà di riuscire, di diventare è forte! Come possono andare insieme umiltà e successo? Eppure è proprio questo che sfruttatore e sfruttato «spirituali» perseguono e proprio in questo si trovano conflitto e dolore. «Vuoi forse dire che il maestro non esiste e che il mio essere un allievo è un’illusione, semplice polvere negli occhi?» egli mi domandò. Se il maestro esista o no, è cosa priva d’importanza. È importante per lo sfruttatore, per le scuole e società segrete; ma per l’uomo che cerca la verità, la quale porta felicità somma, è questa senza dubbio questione priva totalmente d’importanza. Il ricco e il più povero facchino sono altrettanto importanti quanto il maestro e l’allievo. Se il maestro esista o non esista, se ci siano distinzioni fra iniziati, allievi e così via, non è affatto importante, ma ciò che è importante è comprendere se stessi. Senza la conoscenza di sé, il nostro pensiero, con cui ragioniamo, non ha basi. Senza prima conoscere te stesso, come puoi sapere ciò che è vero? L’illusione è inevitabile senza conoscenza di sé. È infantile sentirsi dire e accettare che si è questo o quello. Attento all’uomo che ti offre una ricompensa in questo mondo o in quell’altro.